Walter Veltroni
13 agosto 2021
Corriere dellla sera
Ci sono vite splendide, vissute inseguendo i propri valori, le proprie convinzioni più profonde, sapendo costruire comunità e sapendo restare soli, quando serve. Vite consacrate all’imperativo morale di dire ciò in cui si crede, non ciò che conviene dire. Ci sono vite splendide, vissute trasformando, con la fatica di un artigiano, le parole che ti ronzano tra il cervello e la testa in luoghi, strumenti, cose che mutano la vita degli altri, realizzando la tua. Gino Strada ha vissuto una di queste vite bellissime, piene di senso.
Ha sofferto come pochi, nella sua vita personale e nella sua esperienza di medico e di volontario. Ha conosciuto la morte di chi amava ed era parte della sua vita e quella di chi non conosceva, perché arrivava con il viso sfigurato dall’esplosione di una mina. Ha sofferto per loro, perché una vita bellissima è spesso una vita di sofferenza per gli altri.
Gino è stato dalla parte degli ultimi, sempre. I “dannati della terra” avevano in lui un difensore strenuo e coraggioso. Più erano soli al mondo, più erano dimenticati e più Gino si occupava di loro, cercava di alleviare le loro sofferenze, la loro solitudine. Ma non era un santo contemporaneo. Era un uomo contemporaneo. Qualcuno che sa che l’esistenza è una dimensione nella quale vi è una comunità di destino, una relazione, come un filo invisibile, che lega, sempre e comunque, gli esseri umani tra loro. Agiva spinto da forti motivazioni civili, sociali, politiche.
Non era un predicatore. Era un combattente per la pace, un ossimoro che in lui trovava un senso compiuto.
Qualcuno si lamentava della radicalità di certe sue posizioni. Provate voi a essere moderati in una corsia di un reparto ospedaliero nel deserto in cui arrivano bambini con il ventre squarciato da una bomba, o contemplando, in Siria o in Afghanistan, il cinismo dell’Occidente che è capace, al contempo, di esportare democrazia sulla canna di un fucile e di abbandonare, come accade a Kabul, intere popolazioni al dominio della violenza e della intolleranza
Gino era per la pace, sempre e ovunque, sempre e comunque. Lo era non solo con le parole, spesso ruvide, ma con la fatica di chi ha fatto vivere una delle più importanti organizzazioni del volontariato come Emergency. Di radicalità veniva accusato anche Padre Alex Zanotelli. Ma chi lo faceva non era mai stato nell’inferno di Korogocho o nelle discariche dove i bambini si nutrono di rifiuti e di droga artigianale. E i riformisti in particolare dovrebbero sapere che, se vogliono cambiare le cose del mondo, con la radicalità e il conflitto devono fare i conti, devono sforzarsi sempre di ascoltare, capire, tradurre in programmi e decisioni spinte che salgono dalla voce di chi la sofferenza la conosce e la vive. Non si difende l’idea di una società multietnica se non si difendono i diritti di chi rischia di annegare in mare, se non si garantisce a chi è nato qui di essere italiano. Non si può parlare di pace se ricchezza e povertà sono così iniquamente distribuite. Ai governi che ne abbiano la sensibilità la capacità di individuare le soluzioni che assicurano la rimozione delle ingiustizie. Ma ascoltando sempre la voce di chi condivide quelle sofferenze, le vive sulla propria pelle, le rappresenta con la necessaria forza. Con Gino si poteva non essere talvolta d’accordo, ovviamente. Ma era un grande uomo, al quale ho voluto bene. Da oggi, si deve sapere, i poveri, gli emarginati, i “dannati della terra” sono più soli. Chi lo ha stimato e apprezzato assuma ora il suo punto di vista non come la bizza di un uomo inquieto ma come lo stimolo a fare in modo che radicalità e riforme concrete non siano mai due sorelle separate. E che sempre, al centro, ci siano i diritti dei più deboli